18 febbraio 2019

Stadio di Brescia, per una progettazione condivisa e partecipata

Ad aspettare e procrastinare si finisce con l’essere stritolati dalle necessità contingenti: il Brescia in serie A costringerà forse ad accettare, per lo stadio di Brescia, soluzioni tampone, che soddisferanno le esigenze di “Brescia Calcio s.p.a.” e dei suoi sostenitori (che a quella società portano introiti ) ma che fanno perdere alla città di Brescia, ovvero alla comunità di tutti i suoi cittadini, l’occasione di dotarsi di una struttura non solo significativa per lo sport, ma unica nel sistema urbano e potenzialmente identitaria per l’ immagine presente e futura della città.

Lo stadio "Rigamonti" di Brescia - Mompiano

Negli ultimi decenni in Europa e nel mondo la costruzione o la ristrutturazione delle arene sportive, stadi per il calcio o per altre discipline si sono sempre caratterizzati per essere complessi edilizi che integrano molteplici strutture sportive, edifici destinati all’ospitalità (alberghi, ristoranti), all’intrattenimento, parchi, giardini e luoghi pubblici per tutti.
SI può considerare in proposito, come caso esemplare, l’Allianz Stadium di Monaco, costruito nel 2000 su progetto di Herzog e De Meuron, ma, citando realtà più simili a quella bresciana, si possono citare progetti quali quello per lo stadio di Dundee, in Scozia, per lo stadio di York in Inghilterra, per quello di Bordeaux e per quello di Montpellier, in Francia. 
Lo stadio di Boredeaux (2015) - progetto Herzog e De Meuron

Lo stesso progetto per lo stadio definitivo di Cagliari (che il presidente del Brescia Calcio dovrebbe ben conoscere), sorgendo sul sito del preesistente Sant’Elia mira a ridefinire , con un insieme sistematico di opere, il rapporto della città con lo sport. Il caso di Cagliari è per molti versi paragonabile a quello del Rigamonti: anche lì si è dovuto provvedere in fretta e furia a realizzare una struttura provvisoria in attesa di quella che sarà la definitiva Sardegna Arena, che vedrà la luce forse nel 2022.

Insomma, la costruzione o la ristrutturazione di uno stadio è stata vissuta ovunque come occasione per ridisegnare un parte importante e significativa della città, senza cedere, a necessità contingenti ma con sguardo lungimirante e spesso condiviso dai molteplici attori sociali, consapevoli delle opportunità che l’iniziativa può favorire, oltre che dei vantaggi che procura ai suoi promotori.
Il primo e più evidente dei contributi che la costruzione di un nuovo stadio produce è l’impatto sul paesaggio: modifica significativamente la percezione del luogo, una percezione che si riverbera non solo sugli immediati dintorni della costruzione, ma che, per effetto dell’impatto causato dalle infrastrutture che servono per accedervi, e per i movimenti dei visitatori nel territorio, ha effetti sulla più ampia struttura territoriale.
Altri contributi derivano dalle destinazioni specifiche della costruzione: se monofunzionale, ovvero destinata ad ospitare eminentemente eventi calcistici, sarà un corpo che si anima e vive solo in occasione delle partite e in quelle occasioni anche i parcheggi, le costruzioni di servizio, le strade di accesso, saranno vissute, rimanendo deserti di cemento negli altri giorni.
Effetti si hanno anche per la eventuale impermeabilità dei sito: un blocco monofunzionale, che richiede strutture che ne garantiscano la sicurezza e l’accessibilità controllata in tutte le sue parti, si configura come un vuoto urbano, un luogo esclusivo e mai inclusivo.
Uno stadio moderno deve essere oltre che permeabile alla città e inclusivo, essendo occasione di formazione di luoghi pubblici, anche sostenibile ovvero struttura che definisca con chiarezza e ottimizzi la sua interdipendenza con le risorse naturali, sia nella costruzione sia nella gestione, minimizzando o annullando l’impiego di risorse non rinnovabili (esempi di strutture per lo sport a impatto zero, ce ne sono, grazie all’impiego massivo di fonti energetiche rinnovabili - energia solare o geotermica).
Dunque lo stadio di Brescia, così come oggi si presenta quello di Mompiano, quand’anche fosse ristrutturato in modo minimale in sito, è adeguato ai tempi che viviamo? Risponde all’esigenza di costruire luoghi inclusivi, permeabili, che contribuiscono positivamente alla costruzione (o rigenerazione) del paesaggio urbano, che minimizzano consumo di suolo e impiego di risorse non rinnovabili?

Probabilmente no, salvo che l’intero sito dello stadio non sia ristrutturato, con un processo che veda tra i suoi protagonisti la comunità che lo ospita, attraverso i suoi rappresentanti eletti, ma anche attraverso forme di coinvolgimento della cittadinanza, adeguatamente formata e informata (magari attraverso procedure e strutture di cui la Municipalità dispone, come l’Urban Center e i Consigli di Quartiere).
Il progettista dovrebbe essere chiamato a confrontarsi con la cittadinanza, rispondendo a vincoli assegnati dalla comunità (e non solo a vincoli di sostenibilità economica), rispondendo ad un bando che sia frutto di un confronto oltre che con la cittadinanza anche con la comunità scientifica e culturale più evoluta, confronto che può svilupparsi anche attraverso i media, grazie ai contribuiti che questi offrono all’approfondimento e alla divulgazione dei contenuti.
Infine la localizzazione: tramontata definitivamente l’ipotesi di sacrificare suolo naturale (o da rinaturalizzare) nella zona del Parco delle Cave, si è ventilata la possibilità, proposta, tra gli altri da Valerio Vitali sulle pagine del Corriere, di approfittare dell’opportunità data da questa iniziativa per risanare l’area della Caffaro inquinata da PCB.
Se fosse economicamente sostenibile, e non comportasse consumo di suolo naturale, questo potrebbe essere un ulteriore contributo alla rigenerazione di un’area, che costituisce un vulnus per l’intera città.
È comunque evidente che a Mompiano, o presso Via Milano, o in altra localizzazione, lo stadio dovrà sorgere su un’area in massima parte già urbanizzata, senza alcun consumo di verde, ma, possibilmente, recuperando verde urbano da suoli compromessi. Una struttura per Brescia e non solo per Brescia Calcio.

22 maggio 2018

Quale teoria per l'architettura locale


Nel numero 1015 du Domus (Luglio -Agosto 2017) il direttore della Rivista, Nicola Di Battista, nel suo editoriale ribadisce un intento, in modo tanto perentorio da apparire sfiduciato e pessimista negli esiti: "è indispensabile e importante per noi sostenere il lavoro che facciamo come architetti con una teoria chiara e ben esplicitata, in maniera da poter essere compresa appieno e diventare la base comune del lavoro, condivisa dal maggior numero di persone possibile". Sostiene cioè che non è tanto importante discutere del risultato del fare architettonico, quanto dei contenuti, della teoria che lo determina, per non ricadere nella "barbarie del capriccio individuale, in grado di rappresentare al massimo solo se stesso e il proprio autore ma niente di più"
Il suo testo trae spunto da una constatazione negativa e cioè che oggi è più semplice perseguire un'architettura come tecnica normata e codificata che produca dei manufatti certificati e rassicuranti, piuttosto che avventurarsi in ambiti culturali che sfuggono alle certezze e coltivano invece maggiormente il dubbio". La teoria pare bandita dall' orizzonte del fare architettonico, permane il culto della tecnica o, caso mai, della creatività che "a ben vedere persegue lo stesso obiettivo: quello di ridurre questa disciplina ad una sola parte di essa, sperando in questa maniera di non dover rispondere per intero alle importanti questioni che le sono proprie e che la sostengono".
E' svanito il senso dell'architettura come espressione di contenuti collettivi, quando invece, per dirla con per dirla con Ortega y Gasset, l'artista e ancor più l'architetto sono un "organo della vita collettiva", anzi, "l'autentico architetto è un intero popolo".
Questo intento editoriale si riflette nei contenuti della rivista: gli articoli su progetti (i cui esiti tecnici ed estetici sono opinabili, quando non discutibili) sono introdotti in questo modo:
"Il padiglione rivela la capacità dello studio  di Oslo d'interpretare il territorio e il programma poeticamente.  L'opera architettonica di Manthey Kula mette in luce indirettamente l'impegno quotidiano di molti studi che, lavorando su progetti apparentemente tecnici, riescono a trasformare con passione e intelligenza ogni piccola commissione in terreno fertile per fare architettura in modo alto e poetico" (p. 86, Terminal dei traghetti Forvik Norvegia".



Oppure: Press House, Lynderburg Sudafrica, di Marco Zanuso: "Un'abitazione disegnata negli anni Settanta ... quanto mai attuale nel suo approccio rispettoso ma radicale" e, in conclusione "Casa Press è intrinsecamente innovativa e straordinariamente attuale, esempio di una realizzazione concepita sotto la disciplina unitaria del progetto, prima che il design, la tecnologia e la progettazione ambientale prendessero una strada autonoma rispetto all'architettura" (p. 75)
Si tratta  però tutti esempi di architettura "alta", ma non sufficienti a fornire modelli per l'architettura e l'urbanistica delle nostre città e dei nostri territori. Sono esempi che contraddicono l'assunto esposto nell'editoriale.
Teorie e modelli utili per recuperare una visione positiva, progressista, comunitaria ecologica per la nostra architettura sono ancora di là da venire.

25 aprile 2018

Il potere del simbolo


Nel giorno del 25 aprile si legge che alcune amministrazioni comunali non vogliono che la banda esegua "Bella ciao" perchè sarebbe una musica divisiva.
Della stessa parte politica sono coloro che vorrebbero ripristinare la statua che troneggiava negli anni '30 in Piazza Vittoria: potere dei simboli, materiali e immateriali. Potere della musica e dell'arte!
In realtà la discussione che appassiona da anni molti Bresciani è solo apparentemente oziosa: posizionare una statua sul piedistallo vuoto di Piazza Vittoria non incrementa l'occupazione, non favorisce l'integrazione degli stranieri, non risolve i problemi delle famiglie con anziani non autosufficienti, ma scalda comunque gli animi.
In effetti il tema della ricollocazione della statua del giovane atleta, altrimenti detta "L'era fascista" (così la definì Mussolini all'inaugurazione nel 1932) o "il bigio" dai bresciani che, seduti al caffè, avevano modo di valutare le qualità virili del campione immortalato da Dazzi, sollecita la discussione su argomenti fondanti l'idea che una città vuol dare di sé, sia sul  piano ideologico politico, sia nel rapporto che intrattiene con l'arte pubblica.
Risultati immagini per il bigio piazza vittoria

Il tema ideologico è stato il più dibattuto da quando nel 2013 la giunta di centro destra ipotizzò di ricollocarla nella Piazza Vittoria appena restaurata. La statua però ha presto dimostrato di  non aver perso il suo portato politico: nelle forme, oltre che nella memoria pubblica, rappresenta la pagina più oscura,  tragica e distruttiva della storia italiana del Novecento. La sua ricollocazione nella più compiuta Piazza fascista d'Italia, si è detto, avrebbe comportato il catalizzarsi di opposte violenze. E così l'amministrazione successiva, di centro sinistra non ha dato corso al progetto,
In effetti, questo sarebbe l'unico simbolo monumentale posto nel centro cittadino e riverberebbe i suoi foschi significati sulle piazze storiche della vita civica bresciana.
Arnaldo da Brescia, Garibaldi, Zanardelli, che del centro storico sono ai margini, poco potrebbero per contrastare quest'aura.
La rimozione della statua dal suo piedistallo nel dopoguerra e l'assenza che oggi appare, ha un valore storico e civico infinitamente più alto di quello che deriverebbe dalla sua ricollocazione. Pertanto, così come è stato giusto rimuovere i simboli delle dittatura dalla Russia, alla Romania, all'Iraq, è giusto che il simbolo dl fascismo bresciano non torni al suo posto.


Sul piano estetico il discorso mi appare però più complesso.
La piazza metafisico-fascista, manca effettivamente  di un pezzo, di un fuoco ottico che la completi.
Al contempo la distruzione, e anche l'occultamento di un'opera d'arte, di dubbio valore artistico, ma di sicuro valore storico, non è segno di maturità civica e di consapevolezza di sé.
Brescia, come tutte le città ha bisogno di monumenti, ovvero di opere d'arte in cui riconoscersi, non solo si puri ornamenti estetici, ma di opere che fissino il paesaggio della memoria.
La scultura di Mimmo Paladino, posta sul piedistallo di Piazza Vittoria, sebbene efficace e significativa se accostata alle altre opere che hanno costituito l'allestimento temporaneo delle opere dell'artista, presa singolarmente appare un simulacro dell'Era Fascista: sostituendo il bigio lo richiama nell'impianto spaziale, senza negarlo. Non funziona.
Risultati immagini per piazza vittori paladino

Il centro di Brescia ha bisogno di un'opera che ne richiami i valori civici più elevati. I valori che dal rifiuto della dittatura e della guerra, confermino l'etica del lavoro, della solidarietà, della volontà di pace, valori  che hanno caratterizzato la storia di questa gente.
E il bigio?
La città manca, incredibilmente, di un museo d'arte moderna e di una galleria di arte contemporanea.
Non sarebbe ora di costituirlo? I grandi collezionisti bresciani, le fondazioni, i filantropi, gli amanti della città, non possono unirsi per donare alla cittadinanza un luogo dove l'arte e la storia più recente sia degnamente custodita, rappresentata e mostrata, prima di tutto ai cittadini presenti e futuri, vecchi e nuovi, e poi agli ospiti e ai turisti.
Nel contesto di un museo d'arte moderna, in un parco di sculture, in un luogo dell'arte e della memoria (come quello che ad esempio si è aperto a Bucarest), il giovane atleta di Dazzi potrebbe essere esposto degnamente, illustrato e spiegato ai visitatori, mettendone in luce le contraddizioni, la sua storia controversa, a partire dal progetto (il giovane che fece da modello è stato davvero, in seguito, un partigiano ucciso dai fascisti?), dalla sua collocazione originaria, fino alle ragioni della sua rimozione.

ANSA: quando cadono le statue

Interessante saggio di Lisa Parola su Art tribune; arte storia monumento


15 settembre 2017

Piazza mobile per Via Milano


L'azione progettata consiste nel prendere un oggetto tipicamente quotidiano e domestico, una poltrona, e metterlo in strada, metterlo in viaggio lungo la via Milano, chiedendo la cooperazione dei passanti. La poltrona diventa parte della strada, diventa oggetto pubblico, agito dal pubblico. 
La poltrona nel suo viaggio lungo la via Milano è in una sola volta parte della strada, luogo pubblico, piazza mobile e contemporaneamente è oggetto domestico è casa. 


Piazza mobile: Diario di viaggio
Ho un aspetto normale, né troppo bella, ne troppo brutta, né troppo giovane, né troppo vecchia, né
troppo fragile né troppo forte.
Ho un aspetto normale, quotidiano, sono beige come il mio abbigliamento.
La poltrona è bianco/beige pure lei, anche lei è normale. E' una normale poltrona.
Io e la poltrona siamo ferme al semaforo per attraversare Piazza Garibaldi.
E' sabato mattina, sono le 10,30, in strada c'è parecchia gente.
Rosso-verde.... Rosso-verde...
Comincio
Mi scusi, mi può aiutare a portare in là questa poltrona?”
Ne come né perchè, lui che veniva in senso contrario capisce, forse dai miei gesti, prende un lato
della poltrona, io dall'altro e attraversiamo.
Ringrazio per l'aiuto, spiego che questa poltrona è come una piazza, dove le persone si incontrano e
si aiutano. Chiedo “ Cosa metterebbe lei in una piazza?”.
Mi guarda, capisco che non capisce, è straniero. “ Aspetta ti faccio vedere delle fotografie... è come
un catalogo per delle idee..”. Lui guarda, sorride e dice. “ Capisce!..Capisce!”. Gli do dei
pennarelli. Sceglie un verde. Disegna un uccello.
Non potevo crederci. Pensavo che nessuno avrebbe avuto il coraggio di disegnare su una poltrona
bianca in mezzo alla strada.
Il signore lì vicino sta guardando la scena e ascolta. E' incuriosito. Lo invito a prendere parte. Lui è
di Brescia, lo dice il suo accento. Ha già capito di cosa stiamo parlando. E' seccato perchè nessuno
rispetta le aiuole. “ Schiacciano l'erba, ci fanno sopra i pic-nic, ci portano i cani a sporcare!!” …
Si, ci vuole del filo spinato.” dice. Lo disegna sulla poltrona.
Cerco di discuterne, insisto un po' sul fatto che il verde è di tutti, come ogni spazio pubblico. Lui mi
risponde “ Sì, ma chi lo paga? Lo paghiamo noi!!” e se ne va.
Resto perplessa, non so se per le sue parole o perchè effettivamente, contro ogni mia aspettativa,
anche lui ha preso il pennarello e ha disegnato, del filo spinato, sulla mia poltrona.

Attenta, non è più la “tua” poltrona.

Con l'aiuto dei passanti, la poltrona caracolla lungo la via Milano.
Quasi nessuno si sottrae alla mia richiesta di aiuto, ma qualcuno, forse per la fretta, forse a disagio,
non intende disegnare.
Siamo in prossimità di un caffè, di un grande negozio di telerie per la casa, c'è anche un barbiere per
uomo.
Qui aumenta la presenza di figure femminili.
Le signore che incontro si dimostrano interessate al progetto, meno a spostare al poltrona.
Per loro in una piazza ci vogliono alberi, alberi e tanti fiori. L'acqua meglio di no che attira le
zanzare.
Inviate a disegnare si scherniscono “.. Oh no, non sono capace”, prendono il pennarello e
disegnano, disegnano alberi e fiori. Si prendono lo spazio sulla seduta della poltrona. Non temono il
foglio bianco. Arriva una giovane donna. L'aggancio. La ragazza ascolta seria, non dice una parola.
Prende qualche pennarello e sprofonda con la testa nella poltrona. Comincia a disegnare con cura
un bel fiore viola. “ C'è un verde più chiaro?”.
Passa una giovane donna con un passeggino. E' indiana: E' bella lei è bello il bambino. Occhi scuri
e dolci, bel sorriso. Non vuole.
Nessuna mi ha chiesto perchè lo fai?, perchè perdi il tuo tempo, perchè mi fai perdere il mio' Tutti
mi hanno detto: “ Grazie”.
Le donne , finito di parlare, finito di disegnare, sono andate via come distratte da un pensiero. Come
se l'incontro avesse attivato un pensiero che giaceva da qualche parte in fondo alla mente, come un
ricordo.. Ma non saprei dire di che.
Avanziamo.
Sono ferma.
Passa un signore, direi bresciano dall'aspetto. Gli sguardi si incrociano. Non è giovanissimo.
Guarda la poltrona. Gli dico “ E' una piazza”. “ Lei cosa ci metterebbe in una piazza?”.
Ma non ha niente di meglio da fare lei oggi?” risponde.
No, no, va bene così. Grazie lo stesso” gli dico.
Avanziamo
Incontro in sequenza tre donne mature. Direi dei paesi dell'Est.
Le donne dell'est si ritraggono al contatto. Lo sguardo corre alla mia figura, si ferma un attimo sulla
poltrona.
Due su tre hanno mal di schiena e non possono alzare pesi. La terza è di fretta.
Ti fanno capire che la tua richiesta ha qualcosa di sconveniente, di indecoroso, Che le cose non
vanno fatte così. Per lo meno lei si sarebbe organizzata diversamente.
Tre su tre se ne vanno, scuotendo la testa e lasciandoti lì, con un breve saluto borbottato.
Gli aiutanti si sono distratti, sono troppo allo scoperto, troppo vicini. Chiedo ad un signore dalla
pelle olivastra di aiutarmi a spostare la poltrona.
Lui vede gli altri e mi dice “ Con quanti siete qui, proprio io ti devo aiutare?”
Gli do ragione: Mi scuso. “Buongiorno”.
Avanziamo da sole io e la poltrona. Non so chi porti l'altra.
Lei è sola alla fermata dell'autobus deserta. Arrivo . Siamo davanti al cimitero. Il volto è serio, lo
sguardo ride. …. silenzio........ Le dico “ E' una piazza, la sposto con l'aiuto delle persone che
incontro.”.... Silenzio...” Cosa ci metterebbe in una piazza?” Le offro una manciata di pennarelli.
Lei si alza. Sceglie un pennarello rosso, disegna un cuore rosso sul bracciolo e dentro ci scrive DIO.
Mi chiede “ E tu cosa vorresti in una Piazza?”. Rispondo “ tanti amici”. Lei prende un pennarello
arancio. Disegna tante figurine che si tengono per mano e mi dice “ Per te” e me lo scrive sul
bracciolo.
Poi mi guarda. Mi dice “ Sono innamorata.... Tra poco mi sposo... Lui lavora”.
Siamo all'altezza del cimitero. Ore 13 circa. Non passa nessuno da un po'.
Arrivano due signori, sono stranieri, chiedo aiuto. Mi spostano, prendono la poltrona e partono di
corsa.
Gli sgambetto dietro, mi cade la borsa, sono senza fiato.. ma cerco lo stesso di spiegare.
Loro chiedono “ E' di Ikea vero? La poltrona”. E io, “si ma l'ho fatta rivestire perchè adesso è una
piazza”. Non ascoltano e io non respiro. Uno dice, “ Dai che andiamo. Io faccio il trasportatore da Ikea”. Dico Ok, va bene, però aspetta, vorrei farti vedere delle foto per una idea di piazza. Fermati
davanti a questo cancello. Lui “ Dai apri, te la portiamo su” io “ su dove?” Lui “ In casa!”....
Un saluto, una stretta di mano e se ne vanno. Non mi hanno fatto un disegno.

Avanziamo, un po' mi aiutano, un po' mi aiuto.
Di fronte all'Esselunga, c'è un banchetto: Raccolgono fondi: metà per i ragazzi arrampicati sulla gru, metà per i disoccupati dell'Ideal Standard, in cambio un sacchetto di arance bio.
L'avvicinarsi della poltrona crea una piccola perplessità. Io spiego il mio.. loro spiegano il loro.
Le tre ragazze hanno tante idee, già chiare, addirittura un progetto per una biblioteca autogestita con
il tetto coperto di erba.

Arriva un ragazzo vestito di un giallo fluò ed un bel sorriso. Non so chi sia più improbabile, se lui o
io. Mi dice aspetta, faccio una cosa e torno. Effettivamente arriva, andiamo un po' più in là, lui ride,
disegna, gli piace l'idea.

E' scuro di pelle, la faccia molto seria, cammina svelto. Gli chiedo aiuto. Lui non una parola.
Collabora.
La sensazione è che se i nostri connazionali leggono nella situazione improbabile una “ messa in
scena” sospettando una piccola macchinazione di tipo pubblicitario, di tipo promozionale ( “cosa
vuole vendermi”, “cosa vuole prendere da me”), lo straniero ti vede nella tua contingente necessità,
forse pensa che non sei stata molto furba a metterti in questo guaio. Però ora il guaio c'è e lui ti è
inciampato dentro. Capisci che pensa, dai muoviti, risolviamo questa situazione, non è poi così
grave.
Lui “ Dove la devi portare?”
Io “ In fondo alla Via”
Lui guarda verso l'orizzonte, nello sguardo un punto di perplessità? Disapprovazione ?
La sua mano prende il bracciolo, solleva la poltrona e se la carica su una spalla.
Lo fermo, gli dico, “ No aspetta... Insieme” e poi, “no, non fino in fondo, solo un pezzetto di
strada.. poi troverò qualcun altro”. Grazie.
Il ragazzo pakistano, inizialmente non vuole disegnare. Gli chiedo di scrivere qualcosa nella sua
lingua. Lui dice che è tanto tempo, otto anni, che vive in Italia e non si ricorda più come si scrive
nella sua lingua. Ha in mano un pennarello , inizia a disegnare qualcosa, parla a voce bassa. Mi
avvicino
.” Sai, quando sono qui, sento al telegiornale che nel mio paese ci sono tanti problemi, che ci
sono gli attentati... quando torno a casa... non vedo quelle cose , forse perchè torno alla mia
famiglia , forse sono distratto dagli amici. Forse quelle cose che dicono al telegiornale succedono
nelle grandi città.. forse da un'altra parte..”
Sono in due, sono egiziani, scherzano tra di loro. Dal catalogo guardano le foto, in particolare quelle
degli animali. C'è un riccio. Chiedo “ Come si dice riccio in egiziano” Me lo dicono, non riesco a
ripetere e subito dimentico.
Loro ascoltano i miei motivi, lo sguardo fisso sulla poltrona.
Ridono, forse è imbarazzo... poi uno di loro prende un pennarello, fa segni ampi sul retro, sullo
schienale della poltrona e comincia una scritta: Il suo sorriso è un po' un ghigno. Vedo che inizia a
scrivere con “ VIVA LA..” Temo il peggio. Finisce. “ VIVA LA PACIA”.
Mi guarda e dice “ Ci vuole la pace in una piazza”.

La strada avanza, il pomeriggio pure. La strada si fa stretta. La poltrona ingombra quasi tutto il
marciapiede. Loro sono in tre. Tre uomini adulti. Sono egiziani. Li ho praticamente abbordati. Mi
attraversa un attimo di preoccupazione. Starò generando un equivoco? Sono troppo disinvolta?
Spiego, mostro il catalogo di idee. Mi siedo sulla poltrona. Dico che da lì cambia il punto di vista
sulla strada. La strada è diversa. Faccio sedere uno di loro. Ridono e scherzano tra di loro, ma
sempre in italiano. Uno di loro si fa più serio, prende un pennarello e disegna un ramo di olivo e
dice “pace... In una piazza ci vuole pace”.
Parla di sua moglie e di Sara e Mohamed i suoi figli... “ Ci vogliono bambini, tantissimi bambini.
I bambini sono l'unica cosa pulita” e li disegna.
Sto trafficando con la poltrona, per avvicinarmi all'attraversamento pedonale con via Manara.
Lui è al semaforo. Mi guarda. “ Serve aiuto?” “ Si .Grazie”. Ricomincio la mia storia. Lui è molto bello. Si chiama Jesus è venezuelano. Cosa vuoi disegnare gli chiedo. Lui mi risponde “ Sono innamorato. Disegnerò un cuore” e lo fa.

Mi viene incontro. E' un ragazzo: Avrà diciotto-ventaanni. Si chiama Rochi è indiano. “ Una
mano?” “Si grazie”. Spiego, lui disegna. Io sono stanca. Lui no. Dice : “andiamo?”
Ci viene incontro una ragazza col piumino rosso. Ci fermiamo. Spieghiamo, lei disegna e sposta un
po' la poltrona con Rochi.
Rochi tiene duro. E dice andiamo?
La poltrona non è molto pesante ma molto ingombrante, senza punti presa, mi scivola, sono stanca.
Le mani, i polsi, le dita mi fanno molto male. Mi lamento.
Sono ancora con Rochi. Incrociamo altre persone. Altri giovani uomini, non si salutano tra di loro.
Sembrano estranei. Siamo all'altezza del fatidico civico 140.
Quando mi lamento, Rochi parla ad alta voce, nella sua lingua, senza girarsi. Alle mie spalle, arriva
un altro ragazzo indiano. Camminava dietro di noi, non me ne ero accorta. Mi sposta deciso,
prende la poltrona, partono.
Rochi mi chiede “ Dove andiamo? In fondo a che cosa?”
Non aveva capito che andavamo in fondo alla via e basta.
Che eravamo quasi arrivati.
La sua disponibilità era molto più grande. piazza mobile.- il video della performance

25 agosto 2017

Tempi e luoghi dell'attività ludica

Forse nessuno vive una vita a più dimensioni come un bambino. L'esperienza ludica infatti,
indispensabile per la crescita e spesso dimenticata in età adulta, non è delimitabile in luoghi e tempi predeterminati, ma può assalire come esigenza imprescindibile in qualsiasi momento e luogo dell'esperienza quotidiana.
Perciò la città, se vuole rimanere vivibile ai bambini o, più in generale a quanti fanno dell'esercizio ludico un momento importante della propria esistenza, deve prevedere la possibilità che questo possa esservi esercitato con pienezza e sicurezza.
Purtroppo l'assunto che la città possa essere oggetto dell'esercizio ludico sembra cozzare con i processi evolutivi della società urbana.
I noti processi di ridefinizione di tempi e luoghi delle attività produttive, provocano infatti modificazioni anche nell'espletamento di attività legate alla non produzione: formazione, divertimento, attività ludica, riproduzione funzionale.
La logica di mercato, che interpreta l'essere umano come produttore/consumatore, ha interesse e tende a definire con esattezza e prevedibilità i tempi e i luoghi della non produzione alla stessa stregua con cui determina quelli della produzione.
Per questo motivo cerca di circoscrivere l'esercizio ludico producendc allestimenti e servizi(remunerabili) per il soddisfacimento delle esigenze legate al "tempo libero".

I luoghi destinati alla ricreazione e al divertimento non sono luoghi privi di fondamento, di aura, aperti a funzioni multiple e mutevoli, non luoghi, nella definizione di Auge ma luoghi specifici di produzione del tempo libero in cui si ricrea la dialettica produttore/consumatore necessaria allo sviluppo e al mantenimento dell'economia di mercato.
Questo fenomeno è evidente se si pensa ai parchi ricreativi tematici e acquatici o alle sale da gioco (fino alle moderne cattedrali del divertimento), ma coinvolge anche gli spazi urbani che tendono a separare in modo rigido le funzioni a cui sono preposti. Ciò avviene sia con la formazione di luoghi deputati al divertimento o al semplice relax, come sono, nella tradizione urbanistica dell'occidente industrializzato i parchi urbani, i campi gioco, le passeggiate panoramiche, e oggi gli stessi centri storici chiusi al passaggio veicolare e attrezzati per favorire il comfort e quindi la propensione all'acquisto dei suoi visitatori, sia con la formazione di microambienti, di isole nella città destinate al consumo e al divertimento.
Gli altri ambienti, il cosiddetto tessuto connettivo (nella visione organicistica della città), non sono luoghi né ambienti ma spazi che, in quanto non vocati ad attività diverse alla produzione e al consumo di beni, non ne sono adatti e perciò sono fonte di pericolo. Da questi spazi sono esclusi quanti non esercitano attività produttive o quanti per formazione personale, non interpretano le attività produttive e gli atti a queste connesse come momento autonomo, specifico, delimitato e assoluto rispetto alle altre attività della propria vita. Infatti le strade, i piazzali, i parcheggi, ma anche le vie pedonali e i giardini sono spazi dal significato univoco... finché un bambino non tira un sasso e rompe un vetro (cosa sempre più difficile: neanche i vetri si rompono più).

I bambini, gli anziani, le persone con temperamento artistico o esplorativo o ludico, per passare il proprio tempo libero, cioè il proprio tempo tout court, devono "recarsi lì", cioè compiere un'azione che è tipica dell'attività produttiva a cui sono estranei.
Questa riflessione ci porta a ritenere giusto e opportuno applicare i processi di progettazione e programmazione tipici per gli spazi e le attrezzature per il gioco agli altri elementi della struttura urbana.
In altre parole, nella progettazione urbana è opportuno considerare sia gli usi propri che usi impropri a cui possono essere soggetti gli ambienti e le attrezzature e, fra gli usi impropri, i più rilevanti e pericolosi sono gli usi per attività ludiche.
II pericolo deriva in primo luogo dallo stesso "giocatore"; l'azione ludica infatti è primariamente un'esperienza mentale che crea un mondo altro da quello reale e quindi porta a vivere gli oggetti che rientrano nel campo di gioco come altro da ciò per cui furono originariamente destinati.
A ciò il progettista può reagire in modi diversi:
- creare barriere di protezione che impediscano gli usi impropri;
- prevedere la possibilità di usi impropri e predisporre opportune protezioni;
- predisporre micro ambienti di gioco in luoghi destinati ad altre funzioni anche con lo scopo di distrarre dall'uso improprio di attrezzature altrimenti destinate;
- incoraggiare usi impropri predeterminati e progettare in modo complesso anche a livello di singole attrezzature.
Mentre nelle migliori progettazioni di strutture commerciali i primi tre obiettivi sono usualmente perseguiti, nella progettazione urbana spesso ciò non avviene, salvo casi esemplari
(Zurigo, Modena), in cui anche a livello di progettazione urbana è previsto l'allestimento di ambienti e attrezzature destinate all'infanzia integrati alle attrezzature convenzionali.
L'uso ludico delle attrezzature ad altro destinate invece non è mai accettato e tanto meno incoraggiato, con la conseguenza che si ingaggia una sfida a distanza fra bambini ed esercenti di attrezzature urbane, sfida volta a impedire l'uso ludico di qualunque cosa non sia a ciò esplicitamente destinata.
Le conseguenze della disattenzione nella progettazione e nell'arredo degli ambienti, rispetto agli usi ludici a cui possono essere comunque soggetti, sono, invece, numerose, varie e gravi.
Le fonti di pericolo se le si guarda con l'occhio del bambino o del genitore appaiono immediatamente.
Ad esempio i limitatori di traffico a telaio, oggetto di evoluzioni ginniche di bambini o adolescenti, sono spesso posti in prossimità di cordoli a spigolo vivo.
Le scelte dimensionali che portano alla costruzione di un semplice muretto di separazione, sono fatte indipendentemente dalla previsione che un bambino possa arrampicarvisi, e camminarvi in equilibrio.
I parapetti di scalinate sono progettati in modo da rendere desiderabile ma troppo difficilmente praticabile (dunque rischioso) lo scivolamento.
Gli spazi antistanti le scuole raramente sono di ampiezza tale e dotati di opportune protezioni rispetto al traffico veicolare in modo da consentire la sosta, le corse, le relazioni non normate (e spesso scatenate) a cui i bambini sono inclini al termine delle lezioni.
II controllo dell'adulto, oltre che non essere sempre desiderabile, spesso non è sufficiente e soprattutto, nell'ottica del progettista, non deve essere messo in conto né usato come alibi.
Pertanto, nel progetto urbano è necessario adottare soluzioni al fine, sì di garantire il corretto uso proprio delle attrezzature ma anche di:
- prevenire il rischio di infortuni in caso di inevitabili usi impropri;
- arricchire l'offerta di significati o del potenziale informativo veicolato dall'insieme urbano.
Il potenziale informativo, che differenzia una città grigia e anonima da una città desiderabile e ricca di significati, non si deve all'offerta di soluzioni per l'esercizio di attività di tipo contemplativo o legate al consumo o al comfort degli adulti, ma deve prevedere la possibilità dell'esercizio ludico, a sua volta vero e proprio moltiplicatore di significati.
Al contrario un progettazione integrata e complessa, che prevedeva l'uso ludico degli spazi e delle attrezzature urbane invece è spesso del tutto assente sia nell'ambito commerciale sia nell'ambito degli spazi destinati alla collettività.
Si noti che l'uso ludico di un oggetto è altro dall'uso errato di un oggetto: può essere fonte di rischio maggiore, dal momento che il rientro da una dimensione ludica, per il soggetto che le sta esperendo è molto più complesso e richiede tempi di reazione più lunghi della semplice correzione di un errore.
Riteniamo pertanto necessario che il progettista conosca in modo non solo intuitivo i rischi che sono connessi all'esercizio ludico indipendentemente dal fatto che uno spazio urbano sia destinato o meno ad attività ludiche, anzi, questa considerazione è tanto più necessaria proprio in quei percorsi che sono soggetti all'uso da parte di cittadini inclini all'attività ludica.
Esprimendosi in modo generico e limitato il campo alla fascia d'età che comprende l'infanzia e l'adolescenza, le principali attività ludiche che possono coinvolgere attrezzature e spazi urbani sono:
- osservazione ed esplorazione individuale;
- saggio di abilità motoria e di equilibrio individuale (saltare, scavalcare, camminare sul ciglio,
arrampicarsi, lanciare sassi, oggetti);
- saggio di abilità motoria di coppia o di gruppo (passarsi una palla, un sasso una lattina con i piedi
o con le mani);
- sfida agonistica corsa, lotta, spinte;
- azione ripetitiva estraniante (pestare le righe, contare) ;
- provocare e saggiare le reazioni degli oggetti e delle persone adulte incidere, provocare rumore, infrangere, sporcare e tutto ciò che passa sotto il nome di "vandalismo".
Tutte queste azioni, come è nelle esperienze di ognuno di noi, sono non solo prevedibili ma anche inevitabili. Ciò che si può evitare è che a queste azioni corrisponda un troppo alto livello di incognite.
Le incognite infatti costituiscono per il giocatore un rischio calcolato necessario affinché il gioco non risulti noioso e prevedibile (e quindi non sia esercitato a vantaggio di altri giochi più rischiosi).
Nella progettazione di campi gioco e di strutture per il gioco, infatti la principale attenzione è prestata al bilanciamento della quantità di rischio connesso al gioco stesso: è necessario che:
- la percezione del rischio sia evidente;
- il rischio non procuri eccesso di ansia;
- l'infortunio eventuale sia sopportabile e facilmente rimediabile;
- ci sia sempre la possibilità di sottrarsi al rischio uscendo dalla dimensione ludica;
- il tempo passato sotto stress sia limitato e commisurato all'età e alle caratteristiche dei soggetti che vi si sottopongono.
Perciò anche per i convenzionali elementi di arredo urbano l'elenco delle protezioni da predisporre nella produzione e nell'installazione dovrebbe essere normato da specifiche prescrizioni di capitolato alla stregua di quanto avviene per l'allestimento di campi gioco.
Vale la pena accennare al fatto che le protezioni possono essere:
- attive o passive, cioè corrispondere a impedimenti e controlli oppure ad artifici che limitino i danni o richiamino ad atti di autoprotezione;
- devono essere, dirette a prevenire e limitare non solo infortuni di tipo traumatico, ma devono comprendere la protezione sociale e la protezione biologica da infezioni, che come è noto, sono oggetto di sempre maggiore attenzione da parte degli abitanti delle città.
La presenza delle protezioni deve inoltre essere avvertita distintamente dagli adulti, in modo da limitare la tendenza all'autodifesa che spesso si risolve nell'autoesclusione da esperienze diverse, con conseguente peggioramento della qualità della vita e limitazione delle possibilità e della qualità di esperienze offerte all'infanzia.
In conclusione sembrerebbe pretesa assurda ed eccessiva progettare in modo integrato, prevedendo l'uso ludico degli spazi urbani, quando si pensa che gli stessi campi gioco non hanno quella qualità specifica che dovrebbe distinguerli.
Se è vero infatti che, soprattutto grazie alla spinta di organismi esteri o comunitari, la qualità e la sicurezza delle attrezzature ludiche è migliorata alla produzione (qualità e sicurezza troppo spesso vanificata da installazioni errate o mancata manutenzione periodica), è vero anche che l'allestimento dei campi gioco tiene in scarsissimo conto la qualità e il tipo di esperienze praticabili, l'integrazione con il complesso urbano, le caratteristiche pedologiche del sito, la natura del terreno, le caratteristiche di tutti i fruitori potenziali (accompagnatori, anziani, giovani, persone emarginate).
In una parola i campi gioco troppo spesso mancano di progetto proprio.
Riteniamo tuttavia che pensare ai percorsi e agli spazi urbani prevedendone in modo sistematico gli usi ludici e, in generale, gli usi impropri, possa essere un'ulteriore sintomo di maturazione civile della società oltre che una riconquista della complessità di significati ecologici sottesi in ogni ambiente urbano o naturale a cui la città mercantile e industriale ci ha disabituato.

Tratto da: Cristina Imbrò e Stefano Staro: "Tempi e luoghi dell'attività ludica" intervento alla  III conferenza internazionale "Vivere e camminare in città.andare a scuola", Università di Brescia, Pubblicato dalla Commissione Europea, 1996


17 giugno 2016

The floating piers e i benpensanti



The floating piers un primo effetto l'ha già generato: ha portato alla luce i "benpensanti" e i "benaltristi".
Spesso coincidono con i colti ignoranti, ovvero coloro che credono di saperne sempre un pezzetto più di te: in genere non sanno un tubo di quello di cui stanno parlando ma spostano il discorso su ciò di cui credono di sapere.
Il valore estetico dell'opera? "È opinabile e relativo" cioè "non lo so minimamente valutare, però i presunti costi sociali, gli effetti sul traffico, quelli sì". Il valore sociale delle arti partecipative, ove artista, opera e fruitore si con fondono? Ma neanche per idea, "è nulla di fronte all'allarme generato dalla possibile confusione determinata dall'ingresso libero e gratuito". "La sarneghera, la pioggia potrebbero rovinare l'evento... Con quello che è costato!" E non si considera che l'umiltà dell'artista (cioè la nostra) è e resta quella di piegarsi di fronte agli eventi naturali che ci sono e ci saranno sempre superiori.
Se almeno questi "benaltristi" avessero letto qualche dossier o fossero andati alla mostra sulle opere di Christo e Jeanne Claude, forse avrebbero colto nella poesia dell'opera degli ombrelli, il dialogo che si è creato con il paesaggio, restituito indenne ma donato a tutti noi con un'aura diversa e non consumato dalla banalizzazione della cartolina e dal distratto, invadente, distruttivo turismo della domenica, quello che crea parcheggi, pontili e parchi gioco. Il sonno della ragione genera chioschi.





22 maggio 2016

La Scuola di Atene di Raffaello, un aquestione di dettagli

Raffaello: un artista su cui non mi sono mai pienamente sintonizzato per quell'apparente assenza di dubbi, di tensioni, per quell'apparire un artista di corte, pronto a tradurre in immagini i contenuti proposti da altri; ma  sbagliavo.
Mi è capitato di riguardare con attenzione  la "Scuola di Atene" di Raffaello (cercavo un'immagine simbolica per un percorso di progettazione partecipata a cui stiamo lavorando).
Osservo, sempre più stupito, figura per figura, ornamento per ornamento, il grandioso affresco, in una selva di piedi in gran parte nudi che danno ognuno un proprio equilibrio alla persona, in una successione di  corpi in pose tutte diverse e tutti mossi da pensieri, curiosità, tensioni interne.
Individuo un gruppo, a sinistra, che comprende bambini, giovani, adulti, anziani.
La composizione, nella dinamica  delle linee e delle masse del gruppo converge su Pitagora, ai cui piedi su una lavagna, sono  rappresentati i rapporti armonici nella versione di Zarlino, suggellati dall'affermazione della tetraktys, come simbolo della verità dei numeri.
E dietro Pitagora sono altrettanto impegnati in speculazioni terrene Epicuro e Zenone, l'altra faccia della verità.
E' un gruppo che comprende personaggi poco ortodossi: Ipazia (donna) e Averroè (arabo), conquistano un posto di rilievo nell'affresco che celebra la ricerca razionale del vero.
Mentre tutti sono intenti allo studio, al dialogo, alla ricerca, i soli che ci guardano, che osservano le nostre reazioni, che ci interrogano, oltre a Ipazia sono i bambini: non sono lì per apprendere, ma posseggono già la verità.
Raffaello non è solo un fine illustratore di programmi politici e retorici scritti da altri, non dipinge sotto dettatura:
la chiarezza con cui rappresenta le idee, anzi "l'idea", la compassione con cui anima i corpi, con cui fa vibrare i colori è maestria assoluta e senza tempo.

22 settembre 2013

Un altro capolavoro dell'architettura sociale

Inaugurato in pompa magna alla fine di luglio, è il nuovo quartiere di edilizia popolare, all'estrema periferia sud est di Brescia. Siamo alle propaggini del cosiddetto Sampolino. 
Già il nome, per il quartiere, ė esilarante: la piccola San Polo (?); come dire... le veline (ci sono a Scampia?), il gallaratesino...

San Polo, per l'edilizia economica e popolare è stata, non solo per Brescia, un'epopea: ettari di territorio periurbano destinati, per iniziativa pubblica, all'edilizia convenzionata e sovvenzionata. Il trionfo della pianificazione razionale, guidata da Benevolo, che non poche polemiche ha suscitato nel suo compiersi, ma che, in definitiva, ha prodotto risultati positivi nel medio e nel lungo periodo.

Quindi, nel decennio 2000-2010, sorge il piccolo quartiere di edilizia sociale detto Sampolino: strade e spazi comuni ridotti, casette miserande che potrebbero stare tranquillamente ad Hammamet, stecche multipiano da palazzinari campani.
Però c'è il Metro, che si innalza passando in mezzo alle case, ma, purtroppo, non c'è il mood dei Blues Brothers.

Infine l'ultimo capolavoro: quattro palazzine "vendute", con orgoglio, come il non plus ultra dell'edilizia sostenibile, a impatto zero, tamponamenti in legno ultra performanti... Così che, se l'inquilino non paga la bolletta, almeno il danno è ridotto. Le auto restano fuori perchè, per fare gli interrati, si sarebbe dovuto spendere troppo per garantirsi dagli allagamenti dalla falda sempre più alta, oltre che inquinata.

Il nuovo compound vi accoglie con un steccato in legno: sembra di essere ancora in cantiere, invece è definitivo: serve a nascondere il retro di baracche definite cantine, che accolgono pregevolmente il visitatore. 


Fra le cantine e gli ingressi delle palazzine, il niente. Un corridoio di cemento in cui dovrebbero giocare i bambini. 
Un atrio e delle scale squallide con pianerottoli su cui si aprono cinque porte. 
Ai tempi dell'Ina casa, i pianerottoli davano accesso a due-tre appartamenti. E c'è un perché.
Le facciate esterne sono orrende: campiture rosso - bruno con rettangoloni bianchi, insensati. 
È il segno della crisi? Ricordati che sei povero e povero resterai.
Mah.